Riflessioni “im-possibili”, pandemiche, numero 2

Se ri-emergo, ri- entro (parte 1)

Se ritornassimo ad occuparci del linguaggio, ci accorgeremo che la parola emergenza significa l’atto dell’emergere, il venire in luce del nascosto, il riapparire di ciò che era stato ‘tuffato’; ovvero una parola luminosa, che fa respirare (pensiamo all’emergere dal lavoro nero, ed anche alle nuove forze stanno emergendo in questa particolare società). Ma se è un venire alla luce, appare quindi un’oggetto, al nostro sguardo, che ci induce a vedere e insieme a guardare, ‘ciò che è‘, senza poterci esimere dal dirlo. Come? Con misura, senza giudizio, descrivendo. E qui accade qualche cosa di dirompente, se descriviamo non rimpalliamo colpe ma andiamo ai fatti. Questo ci permette davvero di cambiare, ovvero la presa di responsabilità del fare di ogni persona, in prima persona. Ora, al contrario, la locuzione, fin troppo usata, di stato di emergenza, è confusa e nebulosa, ed in sé è priva di un preciso significato giuridico nell’ordinamento italiano, che prevede invece la locuzione; stato di pericolo pubblico, tale da richiedere l’adozione di interventi eccezionali. Di questi interventi, ora ne stiamo vivendo uno, il nostro stare rinchiusi per esempio. Stati di squilibrio che creano legami fortemente condizionanti intere generazioni, essere sopravvissuti allo scampato pericolo, alla morte dei genitori, per esempio, genera strani sensi di colpa, una vibrazione sotterranea di panico dilagante del ‘cosa sarà di noi’, la troppa infelicità come la troppa felicità, sono insopportabili, da queste ci si ritira, e al loro posto si piazza poi la rabbia o l’inerzia. Quando ci libereranno, per molti sarà così. Ma dall’altra, c’è anche un nuovo mondo che sta emergendo, come se una parte dell’umanità ricomparisse dopo un’eclissi o un momentaneo occultamento.

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