Le humanities in azienda di Matteo Cornacchia

In un’azienda metalmeccanica leader nel settore della logistica di magazzino, un gruppo di ricercatori universitari di discipline umanistiche tiene lezioni di storia, letteratura, pedagogia, filosofia e storia del teatro destinate al management, a impiegati e operai: tutto avviene al termine dell’orario di lavoro, senza obblighi e senza alcuna apparente connessione con l’attività produttiva. In aule ricavate fra imponenti scaffalature industriali, muletti e presse per la lavorazione dell’acciaio, quasi la metà dei dipendenti accoglie l’inusuale proposta e si lascia guidare in un percorso sulla narrazione del sé che si svolge attraverso l’Otello di Shakespeare, le maschere nude di Pirandello o alcuni protagonisti della letteratura industriale di metà Novecento.
La descrizione di quell’esperienza, dalle motivazioni che l’hanno ispirata alla sua realizzazione, si offre come occasione per approfondire il ruolo delle humanities nei contesti di apprendimento formale, non formale e informale; il discorso, condotto lungo tracciati epistemologici propri dell’educazione degli adulti e della pedagogia del lavoro, si sviluppa attorno al complesso equilibrio fra identità personale e professionale dell’adulto-lavoratore che aveva già orientato, ad esempio, le scelte imprenditoriali di Adriano Olivetti e inquadrato oggi nel più ampio dibattito sulla responsabilità sociale delle imprese.
Il testo, nel rivolgersi a studenti di scienze dell’educazione, formatori, responsabili di risorse umane e anche imprenditori, apre alla possibilità di una via umanistica della formazione aziendale, capace cioè di “coltivare l’umano” senza venire meno alle esigenze produttive.
Matteo Cornacchia è ricercatore in Pedagogia generale e sociale presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste, dove insegna Educazione degli adulti e coordina il corso di studio in Scienze dell’educazione. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la condizione adulta, la responsabilità educativa e l’impiego dei saperi umanistici nella formazione.

La discussione contemporanea sul sentimento morale.

Nel pensiero contemporaneo la discussione sul conoscere morale e sulle condizioni di possibilità dell’azione e quindi della libertà, ha giocato un ruolo centrale, così come il recupero del ruolo del sentimento morale. Tra le molti voci importanti un esempio lo possiamo vedere nello scritto del 1962 di P. F. Strawson, uno dei massimi rappresentanti della scuola analitica di Oxford, che nel suo ‘Freedom and Resentement and other Essay’, (Methnen e Cold, London 1974) proponeva una particolare posizione; ossia a fronte dell’impossibilità di risolvere la classica dicotomia kantiana tra determinismo e libertà assoluta (che è portatrice di discussioni da due secoli, e che sicuramente avrà un suo seguito senza addivenire ad un risultato definitivo), è possibile intraprendere un altro cammino che ci permette di parlare significativamente di libertà, senza per questo credere di risolvere il problema, sia che lo si guardi dal punto di vista del presupposto pessimista che crede che si possa parlare di libertà, imputabilità e morale, solo se la tesi del determinismo è falsa; o dell’ottimista che crede che si possa impostare questo discorso in funzione della tesi che sia la verità stessa, così come la scelta e la libertà, siano assolutamente possibili Strawson cambia lo scenario; succeda quel che succeda in una discussione speculativa sulla libertà e sul determinismo l’unica via possibile per parlare di libertà è nella situazione concreta del ‘mondo della vita’. In verità non credo che il filosofo inglese intendesse fondare la morale nel sentimento così alla fine dello scritto al quale ci stiamo riferendo egli annota: “(…) è una pena che il discorso sul sentimento morale sia ‘caduto in disgrazia’. Penso che questo sia cambiato precisamente per influsso della fenomenologia, ed in modo è particolare con la tematizzazione del ‘mondo della vita’’(p.24)

Nell’analizzare i sentimenti morali come si presentano nella vita di ogni giorno, si crea così un luogo comune che, come sottolinea Strawson, è portatore di una sua verità: “L’oggetto di questo ‘luogo comune’ (commonplace) si risolve nel mantenere vivo nella nostra mente ciò che facilmente si dimentica quando siamo coinvolti dalla speculazione filosofica, e specialmente nel nostro mondo contemporaneo freddo ed analitico. Un sapere quotidiano che ci mette in contatto intimamente con l’altro e non il pensare causale” (p.6) In questa sua riflessione sui sentimenti il filosofo continua eligendone tre molto particolari e significativi e ponendoli in una sequenza non casuale: ovvero il risentimento, l’indignazione e la colpa. Sentimenti che acquistano un significato speciale per la coscienza morale; infatti essi rappresentano tre differenti punti di vista, in altre parole il risentimento riguarda l’altro in relazione a me stesso, l’indignazione riguarda sempre l’altro ma la relazione col mio me stesso non è così ‘diretta’ ed infine la colpa che riguarda solo me stesso. Il risentimento è un sentimento dell’essermi sentito offeso dall’altro con la possibilità nel medesimo tempo però di considerare il fatto che l’altro fosse, o potesse essere, effettivamente dalla parte della ragione. E’ possibile infatti che io possa anche rendermi conto che l’altro non era intenzionato ad ingiuriarmi, che non fosse quindi intenzionato ad essere ingiurioso nei miei confronti, ciò nonostante, secondo il mio giudizio, mi ha offeso. In quanto persona però posso anche sospendere il mio atteggiamento di risentimento di fronte all’altro quando la circostanza, per esempio, mi porta a concludere che egli non era padrone di sé, oppure a riconoscere una mia predisposizione troppo violenta in questo senso (ci sono persone eternamente risentite). Allo stesso modo posso distinguere chi compie l’azione, se è un bambino per esempio, o una persona non completamente sana, ovvero non in grado di avere piene responsabilità di sé stesso, ecc… Ora, indipendentemente da tutte la varianti psicologiche del caso sulle quali poter discutere, ciò che interessa Strawson è sottolineare sia il contrasto tra l’atteggiamento, o gamma di atteggiamenti dell’essere coinvolto (o partecipare) in un relazione umana, che dovrebbe corrispondere ad una gamma di atteggiamenti di un altro essere umano, sia la capacità di obiettivazione di questi stessi atteggiamenti. Adottare questo atteggiamento obiettavate verso l’altro è come vederlo ogni volta come un oggetto del fare sociale, ed anche come un soggetto che, nel senso più ampio del termine, dovrebbe assoggettarsi alla ‘cura’ frutto di tali azioni. L’atteggiamento obiettivo pur essendo possibile portatore di diverse sfumature emozionali non lo è mai completamente, infatti non è possibile includerlo nel rango dei sentimenti, intesi come reazione di appartenenza o di partecipazione, che non siano in diretta relazione con un altro essere umano, non possiamo in verità pensare alla gratitudine, al perdono, anche all’ingiuria o all’amore senza includere questi sentimenti in un reciprocità o relazionalità con l’altro. Se il mio atteggiamento fosse completamente oggettivo non sentirei affatto la necessità di lottare, perdonare, amare, anche se l’altro cercasse di combattere o litigare con me; infine benché si possa parlare con l’altro non potrei in verità ‘ragionare’ con lui! Per questo non possiamo essere risentiti con un oggetto ma solo con un essere umano. Si tratta di un sentimento che svela un’inter-relazionalità originaria che incontriamo nel mondo della vita; abbiamo qui bisogno che l’altro ci sia e sia in relazione con noi e sia cosciente di ciò ovvero di aver preferito una rottura di un vincolo piuttosto che un accordo della relazione. Un altro sentimento altrettanto rivelatore, seppur in modo diverso, è l’indignazione. Questo sentimento ci è causato in genere dalla considerazione data ad un’ingiuria che un terzo rivolge ad un altro e che io sento ‘come se fosse’ rivolta verso di me. L’interessante di questo sentimento è che la materia dell’offesa viene presa in considerazione indipendentemente che sia rivolta a noi o meno. In questo scenario noi siamo spettatori non di qualcosa di obiettivo ma di qualcosa di intersoggettivo, l’indignazione scopre una specie di implicita solidarietà umana; l’atteggiamento di chi si indigna non è lo stesso di chi si risente; per indignarsi si deve cambiare la posizione del partecipante e dell’osservatore, non solo nella realtà naturale, ma sino al comportamento sociale. Se cambiamo di nuovo il nostro atteggiamento verso la partecipazione personale nel ‘mondo della vita’ possiamo tematizzare un terzo sentimento: il senso di colpa ovvero un sentire personale nel quale noi ci vergogniamo di un’offesa che abbiamo arrecato ad un altro. In questo caso siamo noi gli agenti (non siamo più né spettatori né pazienti) dell’azione che lede l’altro, in un contesto di obbligazione e di rispetto reciproco. Questa breve analisi ‘fenomenologica’ dei sentimenti morali ci permette di metterne in risalto alcuni aspetti: prima di tutto che si tratta di sentimenti relativi a situazione concrete che scoprono, seppur nella sua forma negativa, un apriori della relazione umana nel mondo della vita quotidiano; quando analizziamo ciò che ci manifestano questi sentimenti nella situazione di compromesso del soggetto agente, noi ci incontriamo (scontriamo) con una dimensione interpersonale che determina il sentire stesso del nostro comportamento; possiamo parlare, a partire da ciò che ci da il sentimento, di una ‘intuizione valorativa’, analogo al concetto e al giudizio a partire dal vissuto intenzionale nel quale mi si danno, in un’esperienza interna, le modalità del conoscere dell’oggetto stesso. I sentimenti analizzati e la loro contropartita positiva, il piacere, il perdono, il riconoscimento, la solidarietà, ecc…, costituiscono quindi una sorta di sistema della relazione interpersonale. L’ipertrofia di qualcuno di essi porterebbe a verità distorte, chi si risente senza riconoscere la colpa, né si impegna criticamente, finisce, con il suo narcisismo, per isolarsi come ‘eterno risentito sociale’. Solo chi non si rinnova può legare a sé un amareggiato sociale che sempre cercherà il colpevole in altri, o in altro, di quelle che sono le sue azioni e finirà per non poter uscire da un eterno complesso di colpa.

Formazione per una leadership umanistica

Questa specifica formazione si propone di essere una chiave umana ed etica per la formazione di colui che viene considerato come un vero leader. Oggi il manager è chiamato ad assumere questo tipo di leadership, capace di suscitare un riconoscimento che vada al di là dei semplici compiti e metta in gioco la qualità umana ed etica del leader. Nello stesso tempo chi ricopre ruoli di responsabilità deve sapere, se necessario, aprire confitti che contribuiscano, attraverso il confronto e l’ascolto, a rafforzare ed arricchire il patrimonio di conoscenze sapienti del leader. Da questa intuizione nasce l’idea che non possa esserci un imprenditore e un’impresa umanista senza manager umanisti.:

La leadership umanistica si può apprendere.

Volendo superare la sindrome della formazione apparente, il primo scoglio da affrontare è quello di non lasciarsi trascinare dalle retoriche e dalle mode manageriali che popolano ampiamente il “mercato della formazione”

Arriveremo, per tale strada, a individuare (nella necessaria integrazione tra contesti di apprendimento formali e informali) la questione cardine per ogni leader, da affrontare quando si voglia davvero preoccuparsi del ritorno dell’investimento formativo. Qui non vie è nessuna ricetta pronta all’uso, questo non è addestramento. Qui si aggiunge valore alla realtà quotidiana, punto strategico per aprire nuove prospettive a tutti i membri dell’azienda sia decisionali che operativi.

Futuro aziendale : con occhi nuovi

Un’impresa spesso fallisce proprio perché non si riconosce chiaramente la sua portata, il valore del mettersi prima di tutto al servizio della vita, indipendentemente dal prodotto che tratta.

Che cosa chiederà sempre più il business del futuro? Senza dubbio il saper fare, ovvero il sapere inteso come modificazione cognitiva data dal sempre maggiore influsso dell’informatica, ma sopratutto il saper essere. Le aziende cercheranno sempre più persone dotate di grande volontà di sapere e sperimentare autonomamente, perché più la consapevolezza delle competenze, che le competenze stesse, sono le basi su cui immaginare, pensare e costruire soluzioni nuove e creative. Vivendo in una realtà difficile, confusa e schizofrenica quale quella odierna, unire sapientemente conoscenza, esperienza e autobiografia può essere estremamente utili nel dare un senso compiuto all’essere e al fare di ogni individuo. Ciò impatta sul benessere delle persone, crea sorpresa, emozioni, senso di appartenenza e fiducia reciproca. Quello che ci appare chiaro, è che sia un’impresa o una professione, non sono mai isolate ne separate dalla nostra vita, al contrario ne sono profondamente connesse e non solo con la nostra vita individuale, ma anche con tutto quello che ci accade e ci è accaduto.

L’azienda cosi come ogni professione, sono un qualche cosa di vivo e si ‘comporta come tale , come fossero ‘persone’ e sono fortemente influenzate dal ‘disordine aziendale, queste situazioni possono evolvere solo se riportiamo ‘ordine’, se prendiamo prima di tutto una chiara visone dello stato delle cose, della storia personale, dell’azienda, di cosa ha creato, dei diversi bisogni, relazioni, ecc..-Questo tipo d’interventi, produrranno un cambiamento duraturo solo se le organizzazioni sono disposte a cambiare e gli individui sono disposti a guardare con occhi nuovi il loro ruolo professionale ed aziendale. Ovvero a ‘vedere’ veramente le cose come sono, la realtà.